Valutazione difficile con risposte probabilmente non adeguate e non compatibili con i tempi e con il livello raggiunto nella Sanità nel nostro mondo occidentale. L’analisi dei fattori di rischio individua una popolazione che negli ultimi decenni, nonostante i progressi nella ricerca di base, non è cambiata e non si è modificata; il che significa che non si è in grado di apportare alcun cambiamento significativo alle caratteristiche biologiche della malattia.
Quali armi avremmo per ottenere qualcosa del genere? Praticamente una sola: la prevenzione! Attuare una prevenzione significa nel nostro caso modificare in qualche modo i fattori di rischio. Proviamo ad analizzarli e a considerare cosa sia effettivamente possibile. L’età: provate a modificarla! I fattori ambientali sono probabilmente più aggredibili, ma difficilmente eradicabili o solo modificabili e incidono in modo eclatante; basti pensare al caso della popolazione hawaiana che, trasferendosi negli Stati Uniti, assume il rischio di sviluppare neoplasie del colon retto della stessa popolazione americana.
Tutti gli altri elementi che abbiamo individuato come fattori di rischio sono in effetti legati al singolo individuo. Le malattie ereditarie implicano valutazioni genetiche molto importanti che sembrano incidere in modo significativo sullo sviluppo della malattia. Si calcola che almeno nel 70% dei casi ci sia una alterazione legata al gene p53 del cromosoma 17. Il CCR ha una patogenesi molecolare ben definita che coinvolge alcune successive alterazioni genetiche che comportano l’eventuale sviluppo di un carcinoma. E questo è importante non tanto per i soggetti a rischio generico o intermedio, quanto in quelli a rischio elevato. Oltre a permettere di comprendere la patogenesi delle neoplasie sporadiche del colon e del retto, la genetica ha permesso di documentare i geni suscettibili di modificazioni che possono essere trasmessi nelle famiglie.
Questo è particolarmente importante nelle poliposi familiari, nelle sindromi di Turcot e Gardner e nelle forme non poliposiche o neoplasie ereditarie del colon che costituiscono circa il 5- 13% di tutti i tumori maligni del colon stesso. Pur basandosi la diagnosi sulla storia clinica e familiare, i test genetici disponibili permettono una definizione delle basi genetiche della malattia e, in particolare, l’identificazione dei membri della famiglia a rischio. Pertanto, questi dovrebbero essere usati per: a) confermare una sindrome in un individuo o una famiglia sospetta di avere una sindrome ereditaria di cancro del colon desunta dai riscontri cimici; b) riscontrare le mutazioni genetiche nei vari soggetti di una famiglia conosciuta come portatrice di una sindrome ereditaria; c) determinare quale particolare individuo di una famiglia con una sindrome ereditaria conosciuta e con una mutazione genetica sia il portatore del gene mutante.
Tali ricerche sono fortemente raccomandate dalla Società Americana di Oncologia clinica e, tuttavia, richiederebbero costi molto elevati qualora si sviluppassero. Non bisogna comunque enfatizzarle troppo, poiché sviluppare la genetica della sindrome ereditaria del cancro non poliposico comporta non solo una appropriata gestione del paziente, ma anche una opportuna pianificazione riguardo ai membri della famiglia che devono essere coinvolti nei test genetici, non tralasciando le implicazioni che promanano dal riscontro di test positivi (ulteriori approfondimenti, i tempi, le modalità ecc.). Per non parlare, poi, delle implicazioni che un eventuale utilizzo terapeutico in vivo della biologia molecolare implicherebbe in tema di violazione della privacy, per la inevitabile quanto misconosciuta conseguenza della manipolazione del patrimonio genomico.
D’altra parte, indagini di questo tipo richiedono un impegno finanziario non trascurabile. Ne deriva che la prevenzione primaria, sicuramente la più certa per i risultati nella lotta contro la malattia, non è perseguibile su larga scala. Se ci riferiamo al nostro Paese, i 20.000 decessi all’anno ne fanno una vera emergenza nazionale sia in termini di malattia che di implicazioni socio-economiche. Peraltro, il Piano Sanitario Nazionale del 2000, pur assumendo piena consapevolezza della situazione, non forniva indicazioni specifiche al riguardo; la successiva promulgazione del Piano Oncologico Ministeriale ha avuto il merito di fornire le linee guida fondamentali per la prevenzione delle neoplasie a più largo impatto sociale (polmone, mammella, colon-retto, prostata).
Tra queste, la malattia neoplastica del colon-retto resta, se vogliamo, la più prevedibile e prevenibile, perché di fatto è intuitivamente più semplice da sottoporre a prevenzione secondaria. Un dato a questo riguardo è significativo: negli ultimi anni, i casi avanzati sembrano essere in netto decremento; ulteriore conferma che la prevenzione secondaria effettuata con un adeguato screening può molto. Numerosi sono i metodi efficaci in questa direzione; vanno dall’esplorazione rettale annuale sopra i 45- 50 anni, alla ricerca del sangue occulto nelle feci dopo i 50 anni (anch’essa annuale), alla rettoscopia, al clisma opaco con doppio mezzo di contrasto fino alla pancolonscopia. Difficile affermare la netta superiorità di una opzione sull’altra e delineare così un iter preciso da seguire. Quello che è certo è che questi metodi devono essere utilizzati in modo diverso nelle diverse popolazioni a rischio.
Importante, se non essenziale, la valutazione del rischio per gruppi di soggetti. In circa l’80% di nuovi casi, il cancro colon-rettale si riscontra in soggetti asintomatici ed in assenza di conosciuti fattori di rischio. L’incidenza aumenta con l’età, pertanto, ai soggetti con età superiore ai 50 anni dovrebbe essere proposto lo screening con l’obiettivo di identificare individui con carcinoma o adenomi. Prima, però, è necessario caratterizzare il rischio in quanto, data l’elevata incidenza di questo tipo di tumore, la diagnosi avviene ancora raramente nelle sue fasi iniziali, quando l’intervento potrebbe portare a guarigione il paziente. Quindi, lo screening programmato del carcinoma colon-rettale è attualmente l’unico vero mezzo che permette di ridurre non solo la mortalità, ma anche l’incidenza della neoplasia.
Prevenzione: È noto che la malattia neoplastica del grosso intestino è la seconda causa di morte per tumore, nonchè una delle neoplasie in crescita nei Paesi occidentali. A differenza dell’adenocarcinoma gastrico, nettamente in diminuzione nel nord America e in Europa, con delle nicchie di prevalenza geografica molto ben individualizzate nel mondo, l’adenocarcinoma del colon-retto continua a dimostrare di essere pesantemente influenzato dalle situazioni ambientali e dal modo di vivere del mondo capitalistico. Attualmente, si calcola che in Italia la frequenza annuale sia di 30-50 nuovi casi/100.000 abitanti con una mortalità di 18-20.000/anno; le proiezioni ipotizzano con evidente credibilità un progressivo incremento. Resta evidente che l’aumento nella incidenza si riflette inevitabilmente sulla mortalità.