Reato e classificazione dei reati:
Il codice penale (c.p.) distingue i reati in:
– delitti che sono i reati più gravi, puniti con l’ergastolo, la reclusione o la multa;
– contravvenzioni che sono i reati meno gravi puniti con l’arresto o l’ammenda.
Reato e classificazione dei reati:
Il codice penale (c.p.) distingue i reati in:
– delitti che sono i reati più gravi, puniti con l’ergastolo, la reclusione o la multa;
– contravvenzioni che sono i reati meno gravi puniti con l’arresto o l’ammenda.
ESEMPIO. La guida in stato di ebbrezza, oltre a rappresentare una violazione del codice stradale, corrisponde ad un reato. Il limite alcolemico legale è di 0,5 g/l (corrispondente a poco più di un bicchiere e mezzo di vino). Se, tramite l’alcol test, si dovesse rilevare un valore superiore a 0,5 ma inferiore a 0,8 g/l incorrete in una sanzione amministrativa. Se l’alcolemia supera invece gli 0,8 g/l (N.B. si tratta di una modifica di recente introduzione, circa un anno e mezzo fa, perché prima bastava superare gli 0,5 g/l) si commette un reato per cui però non si finisce in carcere solitamente (soprattutto se si tratta della prima volta) a meno che alla guida in stato di ebbrezza non si associ qualcos’altro come un omicidio colposo (la guida in stato di ebbrezza comporta il fatto che viene ucciso qualcuno perché ad esempio viene investito): in questo caso i reati sarebbero due. La guida in stato di ebbrezza è quindi un reato per cui non è mai andato in carcere nessuno, almeno la prima volta.
Come si articola un reato
1) Elementi essenziali del reato: elementi indispensabili per l’esistenza del reato; psicologici o soggettivi: dolo, colpa, preterintenzione; materiali e oggettivi sono rappresentati da: azione o omissione, evento, rapporto di causalità materiale che lega l’azione o omissione all’evento.
2) Elementi accidentali: circostanze aggravanti o attenuanti che non modificano l’essenza del reato ma incidono solo sulla entità della pena.
Altrimenti detto: gli elementi soggettivi sono la voglia di commettere un atto lesivo nei confronti di qualcuno. Il fatto di decidere, di pianificare di compiere un atto lesivo rappresenta quindi l’elemento soggettivo del reato, cioè quello addebitabile solo a chi compie il reato; l’elemento oggettivo è invece l’evento, cioè quello che deriva dalla azione commessa in virtù dell’idea. Ciò che invece lega l’azione all’evento è il nesso causale. Facciamo un esempio di nesso causale: io decido di compiere un determinato atto lesivo e ci riesco (ad esempio decido di uccidere una determinata persona, compio cioè un omicidio doloso-); il fatto che la persona muoia in conseguenza della mia azione è determinato dal nesso causale. È accertabile che la mia azione abbia determinato quell’evento. Caso diverso è se la mia decisione di ammazzare una persona non si concretizza e succede un altro fatto. Quindi il nesso causale è la relazione che lega l’azione (cioè la mia volontà di fare un atto lesivo) con un determinato evento, rappresentato dall’omicidio o dalle lesioni. Gli elementi accidentali invece sono rappresentati dalle circostanze attenuanti o aggravanti che non modificano il senso del reato ma incidono sull’entità della pena. Sono circostanze aggravanti quelle caratterizzate ad esempio da una particolare efferatezza nel compiere un reato. Ad esempio uccidere una persona utilizzando sia armi da fuoco che armi da taglio oppure deturpare il cadavere, ecc. Abbiamo cioè un reato, che è l’omicidio doloso, e a oltre a ciò va applicato un surplus dovuto alla particolare efferatezza che si è avuto nel commettere il reato. Invece, una tipica circostanza attenuante, per alcuni reati e in alcune situazioni, è ad esempio rappresentata dal fatto di non avere precedenti penali. L’omicidio doloso ad esempio è un reato previsto dalla legge che ha una pena detentiva non inferiore a 21 anni. Con le circostanze aggravanti una persona può essere condannata anche a 30 anni o addirittura all’ergastolo, qualora le circostanze aggravanti siano più di una. D’altra parte, sempre un omicidio doloso può avere una pena più mite qualora ricorrano circostanze attenuanti in grado cioè di smorzare gli effetti del reato. Si tratta comunque di un’oscillazione di 2 o 3 anni, non di più solitamente.
Art. 40 C.P. “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Quest’articolo cioè stabilisce la responsabilità individuale di ognuno di noi di fronte alla legge. Ci dice che la responsabilità penale è personale. Anche nei casi in cui vi sia un concorso di omicidio o di lesioni, è sempre identificabile il ruolo della persona. Se il vostro ruolo invece non è chiaramente individuabile, non potrete essere individuati come responsabili di un determinato reato. Io posso cioè essere ritenuto responsabile di un determinato reato solo se una mia azione o una mia omissione determina un evento. A tal proposito è adeguato prendere in considerazione le colpe mediche. Se io, ad esempio, durante un intervento chirurgico eccedo nella prestazione eviscerando più organi di quello che la tecnica prevedrebbe, lasciando garze nelle pance della donne che subiscono un parto cesareo, incidendo organi accidentalmente, di fatto ho una responsabilità commissiva perché ho commesso qualcosa. Se invece sono un medico di guardia di notte in ospedale e un pz nel post – operatorio è interessato da un’importante emorragia e me ne accorgo tardi per negligenza ad esempio, io ho omesso la vigilanza doverosa nei confronti di un pz operato per un intervento di chirurgia maggiore che nel corso della notte aveva lamentato disturbi. Anche in ambito odontoiatrico vale ciò. Gli odontoiatri però sono più interessati da eventuali processi civili per errori o mancati raggiungimenti di risultati illustrati.
Il fatto si deve necessariamente comporre quindi di:
– una condotta che può essere commissiva (azione) o omissiva (omissione);
– unevento che rappresenta il risultato o effetto dell’azione o dell’omissione;
– un rapporto di causalità materiale che correlando la condotta all’evento, fa sì che questo possa dirsi conseguenza di quella.
ESEMPIO. Ultimamente ci siamo occupati del caso di una donna affetta da neoplasia a cui, dopo essersi sottoposta a un’ecografia, è stata data indicazione per l’esecuzione di un esame di secondo livello ai fini di approfondire il processo diagnostico. L’esame (una RMN) viene eseguito e (non si sa come) risulta negativo per lesioni di rilievo. La donna quindi torna più tranquilla a casa ma, nel giro di 3 o 4 mesi, peggiora clinicamente per cui il suo medico le consiglia di sottoporsi ad una TC (avendo già eseguito una RMN). La TC risulta positiva per lesioni compatibili con un tumore in stato avanzato con prognosi di pochi mesi.
Non esistono reati di condotta: se la condotta non produce un evento (quali l’omicidio o le lesioni) il reato non sussiste per la legge. È la relazione tra condotta ed evento, che si chiama rapporto di causalità, che viene considerato dal nostro codice penale. Non esiste un articolo del C.P. che recita: chiunque non si comporti correttamente o non faccia bene il suo lavoro è punito con la reclusione. Solo se si dimostrasse che una diversa condotta avrebbe sicuramente, con criterio di elevata probabilità o di certezza scientifica, evitato l’evento si può essere sottoposti a processo ed eventualmente condannato. Una probabilità del 60% non basta ad esempio. Ecco perché la maggior parte dei processi penali contro il personale medico e odontoiatrico si conclude con giudizi assolutori.
Per quanto riguardo il processo civile invece, la relazione tra la condotta e l’evento deve essere accertata con un criterio cosiddetto del “più probabile che non”. Anche una probabilità del 51% in sede civile basta. In sede penale invece la relazione tra condotta ed evento deve essere validata da un criterio del 100%, deve essere al di là di ogni ragionevole dubbio.
ART. 42 C.P. “Nessuno può essere punito per un’azione o omissione prevista dalla legge come reato, se non l’ha commesso con coscienza e volontà”.
Torniamo agli elementi psicologici o soggettivi del reato. Questi sono rappresentati dal dolo, dalla preterintenzione e dalla colpa.
Il dolo è la volontà di commettere un’azione prevista dalla legge come reato che accompagna l’azione stessa (es. sono stufo di stare con questa persona, la/lo uccido). Questo è aggravato dalla premeditazione che è la pianificazione del momento ideale in cui compiere il fatto (es. aspetto che si metta a letto e che si addormenti per ucciderla/lo). Il dolo è di solito commissivo, raramente è omissivo ma ciò che caratterizza il dolo è effettivamente il fatto di fare (o non fare) qualcosa con piena volontà.
ART. 43 C.P. “Il delitto è doloso o seconda l’intenzione quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.
La preterintenzione è un reato che va oltre l’intenzione. Esiste un solo reato che va oltre l’intenzione ed è l’omicidio preterintenzionale che si verifica quando si ha la piena intenzione di compiere un atto lesivo nei confronti di una persona ma, dalla condotta messa in atto per realizzare delle lesioni, deriva un evento che va oltre le lesioni. Un esempio che si fa sempre per rappresentare l’omicidio preterintenzionale è il seguente: nel corso di una colluttazione fisica, decido di colpire il viso di una persona con l’obiettivo di determinare delle lesioni; tuttavia accade che con uno di questi pugni provoco la rottura di un aneurisma cerebrale, di cui non sapevo ovviamente l’esistenza, e la persona muore. Vale a dire, è difficile uccidere una persona a pugni, a meno che non siate dei pugili. L’evento però in tal caso, visto l’aneurisma, è la morte. La condotta era semplicemente lesiva, perché non avevo intenzione di ammazzare qualcuno. Ma di fatto, essendo morta la persona, si tratta di un omicidio a tutti gli effetti e, nello specifico, di un omicidio preterintenzionale cioè di un omicidio che si è realizzato a causa di un atto lesivo che è andato oltre la mia intenzione iniziale (determinare delle lesioni).
ART. 43 C.P.“Il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.
La colpa è quella più frequente: investire qualcuno ed ucciderlo o pensate all’ambito medico (l’operato medico è di solito colposo negli accertamenti penali perché nessun medico vuole commettere reati).
ART. 43 C.P.“Il delitto è colposo o contro l’intenzione quando l’evento non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Delitti contro la persona
Capo 1: delitti contro la vita e l’incolumità individuale.
ART. 575 C.P. Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21.
Questo articolo si riferisce all’omicidio doloso, compiuto cioè con la volontà di uccidere. La reclusione di 21 anni non tiene conto, ovviamente, delle circostanze aggravanti di cui abbiamo parlato precedentemente.
L’omicidio preterintenzionale è invece regolato dall’ART.584: “Chiunque con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582* cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione da 10 a 18 anni”.
*tali articoli regolano le percosse e le lesioni personali rispettivamente.
Cioè: chiunque con volontà di compiere percosse o lesioni personali determina invece la morte di una persona è punito con la reclusione da 10 a 18 anni. Ovviamente il criterio distintivo tra l’omicidio preterintenzionale e quello volontario (doloso) è individuato nella diversità dell’elemento psicologico: volere uccidere o meno.
Poi abbiamo l’infanticidio che è un reato specifico di una determinata figura che è quella della madre, regolato dall’articolo seguente:
ART. 578 C.P.“La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punito con la reclusione da 4 a 12 anni. Peraltro, a coloro che concorrono nel fatto si applica la reclusione non inferiore ad anni 21. Tuttavia se hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da 1/3 a 2/3”.
Questo reato, cioè, è un reato che può commettere solo la madre uccidendo il nascituro durante il parto o subito dopo questo. Il soggetto attivo è cioè la madre, quindi non esiste il reato di infanticidio attribuibile ad un’altra figura. Infatti, non si può parlare di infanticidio se non è la madre ad uccidere il suo neonato. Se ad esempio, il padre uccide il figlio durante il parto, dovrà rispondere di omicidio doloso, non di infanticidio. Quindi gli elementi distintivi dell’infanticidio sono: il soggetto attivo è la madre; deve succedere durante il parto o subito dopo il parto; ci devono essere condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, cioè condizioni di particolari degrado sociale e familiare che rendono non plausibile e né giustificabile l’evento ma che contraddistinguono il fatto che la madre uccida il figlio. Ecco perché la pena è inferiore a quella che si ha in caso di omicidio doloso. Ed ecco perché chiunque aiuti la madre è condannato invece ad una pena di 21 anni (devono cioè rispondere di omicidio doloso, fatto salvo che non siano tutti d’accordo con la madre: in questo caso la pena verrebbe mitigata e ridotta da 1/3 a 2/3). D’altra parte, se queste condizioni (comprese quelle di abbandono morale o materiale) non dovessero essere accertate, si parlerebbe di omicidio colposo e non più di infanticidio.
Una volta erano previste poi circostanze attenuanti per il cosiddetto delitto d’onore. Sappiate che quest’ultimo non esiste più, quindi non vi venga in mente di uccidere il vostro partner che vi ha tradito, giustificando la cosa con l’omicidio d’onore, perché rischiereste anche le circostanze aggravanti della premeditazione! Non solo non c’è più per l’omicidio ma dal 1981[sulla base dell’art. 2 della legge del 5 agosto 1981 n°442: abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore] non c’è più neanche per l’infanticidio. Una volta, cioè, se il neonato (o il feto) veniva ucciso per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto veniva punito con una reclusione da 6 a 10 anni.
Abbiamo poi l’omicidio del consenziente regolatodall’ART. 579 C.P. che recita:
“Chiunque cagiona la morte di un uomo con il consenso di lui è punito con la reclusione da 6 a 15 anni. Si applicano le disposizioni relative all'omicidio [c.p. 575, 576, 577] se il fatto è commesso:
– contro una persona di età inferiore ad anni 18;
– contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
– contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.